Perchè sono vivi – Il ricordo di Giuseppe Russo

Era un sabato quel 15 gennaio.
Pino uscì di casa. E non vi fece più ritorno. Per lui, e su di lui, le forze del male avevano concentrato le attenzioni.
Per Pino, ‘altri’ avevano pensato e immaginato che la sua morte avrebbe portato loro un ritorno in termini di ‘potere’ e ‘onore’.

La chiamano dignitudine.
“Dimostrare di avere il controllo sulla famiglia equivale a dimostrare di avere il controllo sul territorio” – “parlano così tra di loro, parlano dell’onore e della dignitudine, cioè della considerazione che gli altri hanno di te; la dignitudine è quella sorta di intersezione tra i concetti di onore e di riconoscimento pubblico e privato….la dignitudine è ciò che deve essere tutelato nella percezione altrui” (Onore e Dignitudine – Falco Editore-Garofalo/Ioppolo).
Pino vittima innocente di questa mentalità. Una sub – cultura mafiosa che storpia il vero significato dei termini e delle parole, per conseguire consenso. Usare strategicamente la violenza, colpendo un ragazzo innocente, per conseguire “potere, onore e dignitudine”.
Dopo quel tragico evento, nulla è stato più come prima.
Per me, che cresciuto all’ombra di Pino, (lui più grande di me di due anni), è stato come perdere parte della tua stessa vita ed esistenza.
Siamo cresciuti in simbosi. I ricordi. Le uscite. Le piccole liti… ma Pino per me era il ‘leader’.
E’ successo a tutti noi che abbiamo avuto un fratello maggiore. Ricordo che quando litigavo da bambino con i coetanei… “beh ora lo dico a Pino. Pino mi difenderà”. Lui è più forte.
Ricordi ed emozioni che sono sempre lì. Che ti tormentano le notti.
Che ti rincuorano allo stesso tempo, per il sol fatto che ci sono. I ricordi appunto. La memoria.
Il tragico evento, che ti cambia. Ti trasforma. Ti fa provare tanta rabbia, tanto dolore. Tanti perchè… “perchè a noi, perchè alla nostra famiglia. Perchè a Pino”.
E il dopo.
I giorni dopo. I mesi dopo. Gli anni dopo.
I giorni dopo, fatti di lacrime. Silenzi. Dolore.
I mesi dopo, fatti di prime elaborazioni. E più i mesi passano più questa tua metamorfosi si manifesta. Inizi, o meglio, riesci, con fatica, con dolore, a far uscire dalle tue labbra qualche piccola sommessa parola su di lui. Ma funziona come il mantice della fisarmonica. A piccole aperture, seguono veloci chiusure.
Parli di lui… ma subito ti chiudi. E nuovi silenzi.
Gli anni dopo, fatti di tante cose belle. E’ vero. Quando uccidono un familiare, anche il resto della famiglia viene colpito a morte.
Ma la straordinarietà del dopo è altro.
Se hai la fortuna di incontrare sul tuo cammino persone speciali.
Altri che come te hanno subito lo stesso dolore e le stesse sensazioni ed emozioni.
Se hai la fortuna di incontrare sul tuo percorso tanti bei volti e tante belle persone.
E da loro e con loro, tutti quei perchè impari a trasformarli in altro.
Si trasformano in impegno. Impegno a tenere viva e alta la memoria che non va assolutamente dispersa. Memorie, evvero sì, private, ma che messe tutte assieme, diventano per forza di cose, per dovere e senso civico, memorie collettive.
Sarebbe peccato mortale e grave, ucciderli una seconda volta.
La si darebbe vinta alle forze del male, che preferiscono il silenzio e la rassegnazione.
Ti rendi conto che tutti quei perchè, non restituiscono dignità alcuna nè a Pino nè a tutte le vittime innocenti della criminalità organizzata.
Quei perchè devono per forza diventare altro. Devono essere altro.
E appunto il ‘dopo’. Il dopo fatto di percorsi. Il dopo fatto di impegno. Il dopo fatto di un camminare lungo i sentieri della speranza per ribadire sempre con forza che vince sempre la vita. Vince sempre il bello. Vince sempre la voglia di fare di più.
Il dopo fatto di voglia di mettersi in gioco. Il dopo fatto di belle esperienze che vivi e costruisci.
Il dopo fatto dai volti e dagli sguardi di centinaia e centinaia di ragazzi che incroci, che dicono una cosa sola.
Ci siamo. Siamo con voi. Siamo vicini al vostro dolore e assieme possiamo essere comunità. Fare rete. Elaborare e definire programmi e progettualità per costruire una società più attenta e più responsabile.
Il volto e lo sguardo di altrettanti ragazzi e adulti, che nel percorso della loro vita hanno sbagliato e stanno pagando per le conseguenze di quegli errori.
E anche lì, una parola di speranza. Si parla. Si chiacchiera. Ci si racconta e si racconta un dramma e un vissuto.
E si ascolta. Si ascoltano storie e altrettanti drammi.
E ci si sforza di capire. Comprendere il percoso riparativo. La pena.
Tutto ha un senso.
Il senso per me, di non vedere dall’altra parte solo la persona che ha sbagliato. Solo il criminale. Solo l’assassino.
Ho bisogno e abbiamo bisogno di non alzare muri.
Ho tantissimo rispetto della sensibilità e dei percorsi dei miei cari amici e fratelli e sorelle, familiari di vittime innocenti della criminalità che vivono in altro modo situazioni così. Le comprendo. Le accetto. Gli voglio bene.
Io sento solo il bisogno, da persona che vive una comunità, quale è Libera, di andare oltre con lo sguardo. Con la mente. Con il cuore.
Andare oltre quella barriera, per non precludere e me stesso, a Pino e a tutti quei nomi e quei volti la possibilità di guardare l’infinito fatto delle tante cose belle di cui prima.
Perchè sono ancora vivi. Sono vivi in noi. Sono vivi con noi e per noi.
Sono vivi in quell’infinito fatto di speranza e civiltà.

Matteo Luzza
fratello di Giuseppe


Chi era Giuseppe Russo

Giuseppe RussoGiuseppe Russo era un giovane di 22 anni. Fu rapito e ucciso ad Acquaro, in provincia di Vibo Valentia, il 15 gennaio del 1994. Il suo cadavere fu rivenuto in una fossa solo mesi dopo, il 21 marzo, e solo grazie alle rivelazioni di uno dei suoi assassini, che si decise a collaborare con la giustizia.

Le dichiarazioni dell’uomo permisero di appurare che il rapimento e l’omicidio di Giuseppe furono decisi da un boss della ‘ndrangheta che non accettava il fidanzamento del giovane con sua cognata. Nelle sentenze si parla di “visone distorta delle ragioni di onore familiare, tipiche di chi con atteggiamento mafioso vuole dimostrare la supremazia sul territorio”.

I pentiti, che poi sono anche gli esecutori materiali del delitto, appartenevano a una cosca della Piana di Gioia Tauro. In sede processuale hanno riferito che l’omicidio è stato compiuto da loro per fare un favore al boss che aveva ordinato il delitto.