Mio padre, Luigi Ioculano

Parlare di mio padre mi riempie di orgoglio, ma naturalmente anche di dolore perché vuol dire ripercorrere quel solco infinito di disperazione tracciato da chi me lo ha barbaramente sottratto con la violenza e da chi ha permesso che ciò accadesse. Perché colpevole non è solo chi ha armato la mano di chi gli ha sparato o chi lo ha ammazzato a sangue freddo quella mattina del 25 settembre nel corridoio del palazzo di casa, ma anche e soprattutto forse chi ha permesso che ciò accadesse. Chi lo ha lasciato solo prima, chi lo ha tradito dopo non denunciando o addirittura vendendo a chi dall’assassinio di mio padre ha tratto vantaggio, la propria anima e gli ideali per i quali aveva finto di combattere al suo fianco, chi si è trincerato nel silenzio della paura e della convenienza  e chi non ha voluto dare delle risposte alla sua morte.
Tanti omicidi di mafia non hanno un “colpevole” ufficiale perché non si arriva ad avere un processo, la cosa peggiore forse è arrivare a un processo dare i nomi ai mandanti, condannarli all’ergastolo in primo grado e poi arrivare all’assoluzione per mancanza di prove in secondo grado.
Tutto questo senza che la società civile facesse una piega.
Parlare di mio padre vuol dire prima fare i conti con tutto questo e non perché non siano infinite le cose meravigliose da dire su di lui ma perché il dolore e la rabbia per averle perse tutte troppo presto e sopratutto senza un perché e senza un per colpa di chi (?) prende il sopravvento. E io ci faccio i conti ogni singolo momento della mia giornata da ormai 18 anni. Perché il dolore non si lenisce col tempo, se te lo dicono è una grandissima sciocchezza, rimane lo stesso di ieri e di allora con gli stessi pugni nello stomaco e le stesse lacrime soffocanti che segnano il volto e non riescono a far parlare.
Quel che oggi c’è rispetto ad allora è la maggiore consapevolezza del sistema, perché se prima riuscivi a nutrire qualche fievole speranza nella giustizia ora sai che non è così. E se prima speravi che qualcuno ti sostenesse ora sai che non è così.
Chi era Gigi? Era tutto per me, era mio padre!
Un padre come se ne incontrano pochi, un uomo come se ne incontrano pochi, io già allora lo sapevo!
Fedele compagno di vita di mia madre di cui è sempre stato innamorato e che è sempre stata la sua prima confidente, punto di riferimento per tutta la famiglia e padre presente in ogni momento, soprattutto nei momenti difficili. Sempre in prima linea per tutti e per tutto, quando doveva esser fatto. Giornata ecologica, bambini in difficoltà, associazione per la donazione degli organi. Tutto ciò che è giusto fare va fatto per il bene comune o perché qualcuno ha bisogno di noi!
Come per l’AIDO di cui ho sempre in borsa il tesserino.
Divertente, socievole, spiritoso, carismatico … simpatico perfino ai miei amici, sempre disponibile nei confronti di tutti ma esigente quando necessario. Esigente nello studio come nella scelta delle amicizie perché è sempre stato chiaro a noi figlie che in ambienti come quello di Gioia Tauro è necessario distinguere il bianco dal nero e che non esistono vie di mezzo.
C’era una sintonia particolare tra noi, stare con lui mi riempiva di gioia, fosse anche per accompagnarlo a fare le visite domiciliari a casa dei pazienti aspettandolo in macchina o per passeggiare semplicemente sul corso del paese a braccetto, salutare i suoi amici e fare due chiacchiere con loro. Io ero la figlia di Gigi, mi conoscevano tutti e io condividevo tutto con lui. Spesso scendevamo giù in ambulatorio, fucina delle sue idee e dell’associazione culturale Agorà di cui era stato promotore e che gli è costata la vita, per leggere insieme gli articoli appena scritti prima che venissero pubblicati sul giornale dell’associazione stessa. Mi piaceva leggerli e imparare ogni volta qualcosa da lui, ritrovare sempre quell’impegno civile incessante, quel bisogno di rinnovamento del proprio paese e dei cittadini, molti dei quali erano suoi pazienti, alcuni buoni alcuni meno… ma il medico non può scegliere i pazienti, diceva lui e soprattutto ha il dovere di curarli tutti nello stesso modo e con la stessa coscienza.
Perché chiaramente un paese è malato se lo sono i suoi cittadini. E poiché oltre a essere un medico di famiglia si sentiva anche un medico delle anime, riteneva necessario trovare il mezzo per curare le coscienze sopite svegliando i suoi concittadini dal torpore nel quale avevano fino ad allora vissuto, sottomessi com’erano dallo strapotere mafioso, dalla corruzione e dal malaffare. Quale miglior cura della cultura?
“Abbiamo individuato nella cultura una delle terapie più utili per contribuire a guarire la società gioiese dai malanni e dai veleni che l’appestano, convinti come eravamo – e come siamo – che, più l’uomo è istruito e colto, più sa servirsi, con discernimento, di tutto ciò che conosce, usandolo per il bene e per l’uomo, certamente non per il male e contro l’uomo…” diceva in uno dei suoi più emblematici articoli.
Lo chiamavo amorevolmente “Penna veloce Gigi” per questa sua stupenda dote, non faceva in tempo a elaborare un pensiero che era già scritto nero su bianco, chiaro, fluido, diretto e a volte apocalittico. Mi incantavo a sentirlo parlare e mi faceva piacere che mi chiedesse un riscontro: lui sapeva che lo avrei sempre appoggiato, applaudivo orgogliosa e lo incoraggiavo ad andare avanti. Ero un’ingenua!
Il punto è che vedevo tutto quello che era riuscito a costruire dal nulla, la capacità con la quale dopo aver individuato selezionato e radunato le migliori e più sane teste pensanti aveva condiviso con loro il suo progetto. L’obiettivo consisteva nel  risanare e ricostruire le fondamenta della città, utilizzando la cultura della legalità e ispirandosi all’ideale di “normalità”: un “paese normale” in cui vivere tutti, con pari diritti e doveri. Un percorso lungo che attraverso l’analisi e lo studio delle proprie radici storiche sociologiche e culturali, lo studio degli errori commessi avrebbe reso consapevole l’intera comunità di avere in sé la forza e la capacità necessarie per sovrastare la violenza e i soprusi, riappropriandosi dei propri diritti di cittadini e della dignità di essere cittadini gioiesi.
Ho scoperto che le persone, anche quelle più timorose, se sollecitate nel modo giusto con gli strumenti opportuni, una volta compresa la bontà dei progetti che riguardano il bene comune, risponde e anche se lentamente impara a fidarsi e a farsi coinvolgere.
Ma poi arrivano gli spari e su tutto cala un assordante silenzio.
Questo era mio padre. Questo e tanto altro era Gigi. Dire che per me è un esempio è riduttivo… è la mia anima, la mia testa, la mia irrequietezza e la mia ragione, la mia coscienza, la mia forza, la mia memoria, il mio presente e il mio futuro.
Mi ha lasciato un’eredità un pò pesante, ma una bella eredità che certi non possono vantarsi di aver ricevuto.
Certo, se solo vedesse oggi quello che è diventato quel paese, altro che normalità…


Chi era Luigi Ioculano

ioculanoLuigi Ioculano era un medico. È stato ucciso dalla ‘ndrangheta il 25 settembre del 1998 a Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria, dove ha vissuto gran parte della sua vita. Amava profondamente la sua città, ne conosceva i difetti e le piaghe che cercava di curare alla luce del sole. Era un medico e si impegnava ogni giorno per promuovere iniziative sociali e culturali, con la certezza che queste potessero far emergere i valori della giustizia e della legalità nella sua città.
Scrisse sul primo numero del periodico Agorà, che prendeva il nome dall’omonima associazione culturale fondata insieme ad alcuni amici: “Abbiamo individuato quindi nella cultura una delle terapie più utili per contribuire a guarire la società gioiese dai malanni e dai veleni che l’appestano, convinti come eravamo che più l’uomo è istruito e colto, più sa servirsi con discernimento di tutto ciò che conosce, usandolo per il bene e per l’uomo, certamente non per il male e contro l’uomo”.