Colombia. Siamo tutti parte della stessa storia

Il 26 settembre 2016 è stata una giornata storica per la Colombia: la firma dello storico accordo di pace tra il governo di Bogotà e le forze armate rivoluzionarie della Colombia, che pone fine a 52 anni di conflitto armato. Il presidente Juan Manuel Santos e il leader delle Farc Timoleon Jimenez, meglio conosciuto come Timochenko, entrambi vestiti di bianco, hanno firmato lo storico accordo con una penna ricavata da un proiettile sulle note dell’Inno alla gioia di Beethoven.
Il leader delle Farc ha promesso che le forze armate rivoluzionarie hanno abbandonato la lotta armata e ha aggiunto: “Vorrei chiedere perdono per tutto il dolore che questa guerra ha generato”. Una guerra che è costata la vita a 260mila persone e che ha causato più di 7 milioni di sfollati. Il leader dei ribelli ha spiegato che le Farc continueranno a fare politica e daranno il loro contributo alla riconciliazione e alla costruzione della pace.
accordoL’accordo giunge dopo quattro anni di negoziati all’Avana, Cuba, tra il governo di Santos e i ribelli, e sarà sottoposto al voto dei cittadini con un referendum in programma domenica 2 ottobre.

Pubblichiamo la riflessione di Juan Camilo Zuluaga Tordecilla, figlio di Amparo del Carmen Tordecilla Trujillo, scomparsa dopo essere stata rapita a Bogotà il 25 aprile 1989.


Mi sembra che noi colombiani ci riconosciamo nel tricolore, ci sentiamo colombiani. Un orgoglio che ognuno sente a modo proprio, molte volte si manifesta con caratteristiche di gang, ma la bandiera e la forma del Paese sono sempre le stesse. “Apátrida” (apolide/traditore della patria), è un insulto che leggo spesso, e questo è un sintomo di buona salute identitaria, nel senso che esiste un sentimento, un’entità con la quale tutti quanti noi ci relazioniamo e spesso ci unisce – non solo attraverso
lo sport.
Un altro punto che ci unisce è il dolore di tanti anni di violenza, che ha lasciato la sua impronta in tante famiglie. Sono poche le famiglie che non sono state toccate direttamente da questo conflitto armato.
Riconoscendo la sofferenza dell’altro, chiunque sia quell’altro, ci rendiamo conto che non c’è un dolore più grande di un altro.
Tutti sentiamo il dolore che causa la morte violenta di una persona a noi vicina.
Ognuno reagisce e somatizza in modo diverso ma lo strappo che si sente in una parte del corpo e nell’animo lo sentiamo tutti.
Questo dolore lo sente il contadino, l’indigena, il guerrigliero, il soldato, il paramilitare, il civile, l’adulto, l’anziano e il bimbo.
Soprattutto lo sentono i familiari e gli amici della vittima. Quelli che sono rimasti in vita.
Coloro che sono sopravvissuti spesso si chiedono perché non sia toccata a loro la stessa sorte e a volte desiderano trovare rifugio nella morte piuttosto che continuare a vivere, portandosi addosso un gran peso e cercando di convivere ogni giorno con il vuoto, con i fantasmi.
Il dolore di tutte le vedove e vedovi, gli orfani, i familiari e amici di coloro che sono state vittime di così tanta violenza, ha la stessa dignità.
Nel dolore dell’altro riconosco il mio, nel racconto dell’altro mi ritrovo e lo sento, parte del mio. C’è una parte della storia personale dell’altro che s’incrocia con la mia, che parla di me e che parla a me.

Perché vittima è il giovane soldato che sente “il dovere” di uccidere un fratello in nome della patria.
Perché vittima è il giovane che vede nella guerriglia l’unico modo per poter dire ciò che sogna per la sua patria.
Perché vittima è il paramilitare che perde la sua umanità in nome di non riesco a capire che cosa.
Perché vittime sono i figli che non potranno riabbracciare i genitori.
Perché vittime sono i genitori che non riabbracceranno i loro figli.

Riconosciamoci in quella dignità e quello sforzo che deriva dal caricare, ognuno con il proprio lutto. Ognuno come meglio può.
Riconosciamoci cittadini di uno stesso paese.Riconosciamoci! Siamo tutti parte della stessa storia.
Non si dimentichi che non può esserci pace se non c’è giustizia sociale e una società libera non può svilupparsi se non c’è legalità. La Colombia è un Paese in cui si continuano a scoprire fosse comuni, dove è recente la pratica dei “falsos positivos” (civili uccisi dall’esercito e fatti passare come guerriglieri caduti in combattimento), dove ancora oggi chi lotta per giustizia e dignità, chi denuncia abusi e cerca la verità
viene minacciato, torturato, ucciso e spesso ai più fortunati non rimane altra strada per salvare la propria vita e quella dei suoi cari, se non l’esilio.
La mia speranza è che ora che l’oligarchia colombiana non ha più lo spauracchio guerrigliero, si riescano rafforzare le organizzazioni sociali che lavorano e lottano per un paese che migliori le condizioni di vita della maggioranza dei colombiani.
Dove cambi la forma di lotta di molti oppositori e sognatori, ma non il loro obiettivo di volere scommettere su una società più equa, che non si basi sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Che non si smetta la lotta per una società razionale ed egualitaria.
Spero si riesca a rafforzare nel tempo una proposta politica inclusiva, in grado di eliminare o almeno ridurre le disuguaglianze sociali, che applichi dei correttivi al meccanismo di distribuzione delle risorse economiche, rispettosa dei diritti umani, che continui sfidando la storica classe dominante colombiana, che con strumenti democratici costruisca una alternativa. Che si riesca attraverso il dialogo continuo – che non sarà né pacifico né gentile – di costruire gli strumenti sociali ed economici affinché i futuri cittadini della Colombia possano continuare a lavorare politicamente nel processo di democratizzazione dello Stato e non essere costretti a ripetere in futuro gli atti di guerra che spero di non rivedere mai più. Abbassare la testa per paura e impotenza, o dover trasformare i sogni, le energie e le idee in pallottole e bombe per poter farsi sentire.
Ricordando le parole di Estanislao Zuleta: “il dialogo con argomenti è una scuola di eguaglianza umana. Non riguarda il fatto che io debba accettare qualcosa perché l’altro potrebbe colpirmi o sparare, ma perché ho compreso che il suo argomento è corretto”.
Una cultura non di esseri uguali ma si con valori condivisi.
Curiamo le nostre ferite con verità e dignità perché soltanto così fermeremo la spirale di violenza che tutto distrugge. La nostra generazione ha questa opportunità: far tacere le armi e sanare le ferite.
Nella guerra guadagna soltanto chi di guerra vive.
La biodiversità che con tanto orgoglio si promuove dentro e fuori dal paese include gli uomini e le donne, include tutti quanti noi, e ci pone la sfida di costruire una Colombia diversa, che guardi orgogliosa i colori della nostra pelle, sappia prendere la miglior parte della storia che ognuno di noi ha ereditato. Costruire una cultura democratica. Un paese plurale, che valorizzi le sue diversità umane. Un Paese dove riuscire a volgere lo sguardo indietro e vedere il sentiero che mai più
si dovrà ripercorre.
Che i sogni che abbiamo dentro non muoiano con la puzza del piombo, che non siano messi a tacere dalle terribili urla dei torturati, che non marciscano sulla terra delle fosse comuni.
Nella ricerca di verità, giustizia e riparazione mi viene in mente la “Lettera al Padre”, di Kafka, che adatto a ciò che sto scrivendo (Franz mi perdoni), e conclude dicendo: «Naturalmente nella realtà le cose non possono essere calzanti come gli esempi della mia lettera, la vita è più che un gioco di pazienza; ma con la ricerca di verità, giustizia e riparazione , si sta arrivando secondo me a raggiungere un qualcosa di così vicino alla verità che un pocchettino può tranquillizzarci e renderci più facile il vivere e il morire»
Mani all’opera, il nostro impegno continua a essere fare solchi nel mare!

*A questo link la versione in spagnolo.

http://www.red-alas.net/nuestro-labor-sigue-siendo-arando-en-el-mar/